Nino Ricci
L'opera in nero
in mostra alla Galleria Centofiorini
fino al 13 gennaio
Nino Ricci. L’opera in nero
di Marta Silenzi
Un tramonto
uno squarcio acceso buca
la cupa nuvolaglia e i bassi
lembi calano sui monti
ora, le nubi e le creste
vestono le stesse ombre
così il valico viola
e il contrafforte turchino
sono un bruno mantello
l’ansiosa vista in cammino
in quell’oltre inatteso
si ferma, né aspetta il disvelo
guarda l’occhio di fronte
mutarsi in incandescenti colori
e muti fuochi celesti
aprirsi in varchi ulteriori
dentro la scura cortina
pare alla finestra la notte
Eugenio De Signoribus
ottobre 2012
Il 1982 – quando l’esplorazione morfologica di Nino Ricci era ancora impegnata in elaborazioni geometriche di volumi e moduli dominanti sopra sfondi tono su tono, sospesi nello spazio, sfaccettati nei pieni e nei vuoti, quasi indicando l’impressione di una rotazione – era l’anno in cui un fatto preciso s’insinuava nell’indagine cromatico-segnica di fine razionalismo ingegneristico-scenografico, per condurre l’artista al suo approdo figurale, come verso un’immagine totemica che non lo avrebbe più lasciato.
In precedenza c’era stata una suggestione naturalistica, mista a costruzioni di piani e linee che univano il segno ed una volontà grafica ad una sensibilità cromatica e poetico-giocosa alla Paul Klee (N.991 e N.998 del 1958, N.997 del 1959); c’era stato l’incontro con le haute pâte di Fautrier, la cui ispirazione di trama materica stratificata andava a sommarsi alla tavolozza di Ricci già scelta, già estremamente delicata e illuminata da tocchi di evanescenza, come se le tinte fossero dotate di luce propria, irradiata dietro gli effetti tattili di materiali granulosi come il semolino (N.999, N.1021, N. 1026, tutti del 1962). Poi, dagli anni ’70 aveva preso piede un discorso modulare, di elementi squadrati, linee diritte e taglienti, angoli e punte, regoli e cubi, prima compresi in perimetri e iscritti in ellissi di sfondi monocromi, poi produttori di ombre entro piani ed ambienti, sempre più diretti verso atmosfere metafisiche di stampo morandiano, ma più per la silenziosità gravida e per i toni dolci e freddi che non per una questione di natura morta mai affrontata veramente.
Nel 1982 era avvenuto qualcosa. Nino Ricci, in viaggio a Praga, città ancora sotto il regime comunista, visitava (su suggerimento del critico Flaminio Gualdoni) il cimitero ebraico, allora ancora difficilmente aperto al pubblico ma visibile da una finestra del vicino Museo delle arti decorative; un caso fortuito volle che quel giorno il cimitero mostrasse un’esposizione di disegni dei bambini provenienti dai lager nazisti, così il pittore poté accedere a quello scenario, oggi noto, di uno dei più antichi luoghi di culto ebraici d’Europa.
Il cimitero, fondato nel 1439, apparve a Ricci nel suggestivo e malinconico aspetto di unica area di sepoltura riservata agli ebrei di Praga che quindi avevano rimediato alla mancanza di spazio con la sovrapposizione delle tombe: alcuni punti del terreno erano e sono sovrapposti fino a nove strati di diverse sepolture, con un risultato di terra ammonticchiata e cosparsa di lapidi accostate, piantate con semplicità, secondo il culto aniconico ebraico, ma cariche di simbologia, in un luogo che l’occupazione tedesca aveva deciso di non distruggere “per lasciarlo a testimonianza di un popolo estinto”.
Ricci subì la fascinazione del cimitero ebraico non tanto a livello emotivo, quanto per la visione dei marmi e delle arenarie ancora oggi così stretti, come monoliti che si moltiplicano, si addossano e si appoggiano, si fanno corpo comune; le cuspidi e i tagli netti delle pietre che coprivano e ombreggiavano somigliavano tanto alle sue composizioni ma prive di ordine e razionalismo: le sovrapposizioni avevano infatti provocato inclinazioni, dissesti e punti d’appoggio su cui poi si era depositato il tempo conferendo al tutto un alone di rovina – seppur mortuaria – decisamente carica di vissuto e di storia.
La folgorazione della visione non è stata subito messa a fuoco ma nell’andare della sua indagine pittorica e compositiva le orchestrazioni figurali ricciane hanno iniziato a farsi meno rigide e le forme hanno preso l’aspetto di pietre tagliate per l’altezza, di rocce, menhir sagomati, approssimati, ripetuti, con grande potenziale per lo studio di ombre e chiaroscuri che è forse la componente principale delle opere dell’artista maceratese. La trasformazione delle forme geometriche in rovine-lapidi è arrivata autonoma e col tempo, l’autocoscienza è giunta a posteriori, per poi disperdersi e continuare una ricerca indipendente che tuttora si spinge oltre il significato della forma.
Così le opere degli anni Novanta sono gruppi scultorei dipinti che conservano una qualità naturalistica di erosione, inscenati entro palchi silenziosi e intensamente atmosferici, perché pulviscolare è la tessitura pittorica (con un tremolio del colore alla Seurat pur senza arrivare al puntinismo) e naturali sono i tagli di luce talvolta laterali che allungano le ombre e rafforzano l’effetto di bassorilievo e quindi di classicità dell’immagine.
A questo risultato Ricci arriva anche con lo studio, effettivamente plastico, di creazioni in gesso e in cartapesta che lo aiutano nell’individuazione del sottile e affascinante gioco chiaroscurale della sua pittura, soprattutto quando reso nella gamma, a lui cara, dei colori pastello. I rosa, gli amaranto, i pervinca, sono tinte spiegate e disposte sulle sagome-rovine come teli e sottoposte a continue delicatissime velature, indagate nelle più estreme gradazioni tonali, su sfondi a contrasto o più spesso accordati, conferendo al suo lavoro una caratura classica e modernissima al contempo.
Ciò che stupisce è la raffinatezza, l’eleganza tenue d’imponenza culturale e levità poetica perfettamente corrispondenti alla mitezza caratteriale del pittore, ai suoi gesti attenti e cadenzati, così come le tinte cerulee richiamano la bella trasparenza del suo sguardo.
Le cartapeste segnalano anche la profonda conoscenza delle carte da parte di Nino Ricci, conoscenza e amore corrisposto, perché la sua pittura sembra nata per legarsi intensamente alla tramatura della carta fatta a mano, con risultati magnifici nelle tempere e negli acquerelli.
Non è stata casuale la sua lunga collaborazione con le cartiere di Fabriano, ma certo il suo rapporto con la carta è iniziato molto prima, quando ancora studente è stato introdotto alle tecniche incisorie presso la Scuola del Libro di Urbino, sotto l’egida di Mainini, Castellani e Bruscaglia.
Ciò che avviene in termini di ombreggiatura e distribuzione chiaroscurale nei dipinti, attraverso il colore, non si disperde, anzi, aumenta ovviamente d’intensità nelle incisioni, dove il bianco e nero permette una lettura evidente di questo elemento fondamentale dell’opera ricciana.
Le acqueforti e le acquetinte sono espressioni che l’artista lega a numerose pubblicazioni, come commento immaginifico di produzioni poetiche ad esempio di Eugenio De Signoribus o Leonardo Sinisgalli, talvolta spingendosi fino alle tecniche meno esplorate della maniera a matita (una variante della vernice molle) o della stampa a secco, con esiti di rilievo sorprendentemente ricercati.
Quindi, tra tanto interminabile colore, di una qualità quasi femminile tanta è la sua delicatezza, ecco il nero. Tuttavia persino il nero è lieve nei lavori di Nino Ricci, le sue sfumature, le digradazioni sono pacate e sublimi, si mostrano docili e sagge come i suoi blocchi erosi o gli iceberg ghiacciati che stanno da tempo immemore e sanno raccontare storie stratificate di luci ed ombre trascorrenti e variabili all’infinito.
“Il nero è uscito fuori all’improvviso” dice il pittore parlando dei suoi inediti a carboncino degli ultimi tempi, e senza che ci sia stata un’interruzione del colore, perché la sua casa-atelier vede più opere contemporaneamente al cavalletto: gli oli rosati di varie dimensioni e questa nuova produzione di carboni su carta pregiata, lavorati, ritagliati e poi applicati a nuovi supporti cartacei. La tramatura è spessa, granulosa, e l’uso sovrapposto di carbone naturale, pasta di polvere di carbone e carbone vegetale spolverato a pennello per riempire i vuoti della grana, conferiscono alle sagome un carattere nuovo e antico al contempo, prezioso, profondo.
Il nero dunque arriva quasi inconscio eppure l’impressione è che ci siano sempre stati quei passaggi d’ombra, quelle dimensioni notturne non prive di luminosità lunare e splendente; essi appaiono come un primordio che finalmente esce allo scoperto dopo l’attesa di questa placida maturità, e giunge a prendere la scena con solenne e silente importanza, ma senza mai perdere la propria gentilezza.
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